Sul Natale

Vorrei tanto creare un bello scritto con tanti lustrini e strass retorici che faccia leva sui buoni sentimenti mescolati nei roboanti messaggi Natalizi con cui i media hanno invaso le nostre menti. Ma non sarà così. Ma come parlare degli esclusi dalla festa senza cadere nella vuota retorica propria dei mezzi di comunicazione durante le feste? Impossibile!

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Come veleggiare con una immaginaria barca nel mare dei luoghi comuni? Avendo fisso davanti gli occhi il dolore. Il dolore, si, questo sentimento che spaventa tutti. Ma il dolore di chi? Degli invisibili, ovvio. Di quelle persone che per propri errori o per tragica sorte hanno perso tutto. Il dolore, già. Quel dolore che dovrebbe essere lenito dalle feste, secondo teoria e prassi, e che invece si acuisce. Si acuisce perché quasi tutti siamo orfani di quel modello “sociale” di famiglia che ci viene continuamente proposta sino a diventare un qualcosa di indispensabile. Ma questa Famiglia cosa ha di particolare?

Semplice: non esiste! La famiglia tutta sorrisi, buoni sentimenti, sesso casto tra mamma e papà, non c’è. O meglio c’è solo nelle pubblicità, il nuovo vangelo mediatico. E siccome nessuno vuole dire: ”Amo la mia dimensione problematica” non ammettiamo di non essere quelli della pubblicità. Ma quale frustrante sentimento ci alberga nel cuore quando la mattina suona la sveglia e comincia la giornata (con tutte le sue difficoltà)?

La routine, lei! Lei scaccia le immagini felici e vincenti a poco prezzo di cui ci siamo nutriti sino alla sera prima. E la felicità al neon degli spot della sera prima sono solo un ricordo. Su il sipario allora: va in onda la vita, quella vera, quella in cui, purtroppo, per molti che sono sulla strada non c’è il lieto fine. Questa consapevolezza che dovrebbe portarci tutti a reagire, insorgere, si infrange nei flûte di prosecco a più o meno buon prezzo. Buon Natale e buona fine d’anno!

Solitudine

La solitudine, questa conosciuta amica. Viene ogni tanto e ci prende per mano portandoci nei deserti senza sentimenti se non quelli propri della tristezza, della malinconia.

Non puoi vivere con lei ma non puoi neanche vivere senza di lei. Quanti grandi menti sia contemporanei sia del tempo passato hanno munto il latte dell’ispirazione dalle mammelle della saudade? E quale creativo può affermare di aver creato senza mai avere avuto questa fedele compagna al suo fianco?

Possiamo considerarla come una nemica indispensabile. Si, perché se è vero che quando arriva fa male è pur vero che è proprio nel rialzarsi dopo che lei se ne è andata che l’atto creativo nasce. Come dopo una rovinosa caduta che ci richiede le migliori energie per rialzarci. Vi è persino una scuola di pensiero, nata in Australia, che ritiene la solitudine come conditio sine qua non per la creatività. Probabilmente perché è nella solitudine che si entra in contatto con il lato più profondo di noi stessi.

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Ma, più concretamente, quando la solitudine si affaccia nella nostra vita troppo spesso e a intervalli ravvicinati che fare? Indubbiamente la solitudine viene a causa dei nostri pensieri i quali generano poi a loro volta gli stati d’animo. Dobbiamo quindi arrenderci: al di fuori del contesto sociale che la può generare la solitudine viene perché siamo noi che la chiamiamo.

Poteri forti

Eravamo giovani, giovani e folli come solo i giovani sanno esserlo. Forte in noi la spinta propulsiva, grande l’amore per l’ideale il quale era, manco a dirlo, un ideale di libertà.

Tutti uguali e ugualmente liberi. Peccato. Peccato per cosa vi starete chiedendo. Peccato che nessuno sapesse veramente cosa comporta far funzionare uno stato.

Però faceva tanto IN non avere tabù ne freni inibitori. Tutto era possibile e questa cosa noi la chiamavamo libertà e la via per arrivarci rivoluzione.

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Una generazione era prossima al fallimento e i suoi sogni prossimi a diventare incubi.

La rabbia che covava dentro e che avrebbe dovuto essere indirizzata contro le ingiustizie presto divenne invidia. Si odiava per categorie trasformando un movimento che avrebbe dovuto essere libertario in un qualcosa di diverso. Cosa? Una intera generazione sbagliò deviando dal percorso democratico verso l’illegalità di massa. Immaginare che un movimento così sciaguratamente fatto potesse sconfiggere i “poteri forti” e innalzare la bandiera rossa sul Quirinale e, nel contempo, far abbeverare i cavalli dei cosacchi nella fontana di San Pietro poteva significare una sola cosa: la follia aveva preso posto in noi.

In quegli sciagurati anni l’Italia annoverava il più grande partito comunista d’occidente.

Oggi mentre osserviamo il risorgere di antichi slogan propri del ventennio non possiamo non chiederci:” ma noi, noi di sinistra … dove siamo finiti?”. Potrete trovare chi con la rivoluzione ha trovato le comodità nei salotti perbene a pontificare su costituzione, profilo costituzionale, eccetera. Quella sinistra che tanta presa fece, complice il momento storico favorevole, sulle masse ebbene: dov’è? Chi è che parla alle periferie, agli emarginati. Chi promette pace, sviluppo e benessere? Lo schieramento opposto.

Si è verificata, al pari di contenuti, una inversione di schieramenti che vede intatte una sola cosa: le promesse elettorali! Nulla più. E così chi si richiama a certi ideali non esita a dichiararsi fascista, mentre invece dallo schieramento opposto nessuno si richiama a niente. In mezzo a queste due spinte il cittadino.

scrivere

Ho sempre pensato che scrivere fosse una sorta di atto liberatorio, qualcosa che consentiva a ciò che era dentro di fuoriuscire in maniera prepotente.

Certamente è anche questo ma non solo questo. Scrivere è la propria personale verità che viene sparata in faccia al lettore da quella mitraglia che è la tastiera ed i cui proiettili sono i caratteri. Solo colpendo a “fondo” (virgolette non casuali) si può essere certi di sortire un qualche effetto. Solo se la mia indignazione (indignatio omnis) farà indignare chi legge o lo farà sussultare allora avrò raggiunto il mio scopo. Scopo precipuo e prevalente rispetto al gradimento del lettore. Quanti melensi e zuccherosi romanzi d’amore, d’appendice, eccetera, abbiamo letto? E cosa è cambiato in noi?

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Il lato “oscuro” dello scrivere, quello commerciale, è sempre presente ed è prevalente di fronte ad altre forme dello scrivere. Ecco perché noi leggendo un qualcosa di melenso “proiettiamo” il nostro disperato bisogno di credere. Credere in cosa? Credere che salvo qualche “piccolo” imprevisto, non proprio evitabile, tutto finirà bene e il settimo cavalleggeri arriverà sempre puntualmente seppur all’ultimo minuto! E se qualche volta ci fosse qualcosa, poniamo in TV, che ci dice:

Non sempre è così” nessuna paura c’è sempre il telecomando con cui cambiare canale.

Per vedere i soliti triti e ritriti programmi spazzatura che sono l’oppio della mente.

Con gli eterni non invecchiati il cui massimo dello sforzo consiste nello spiegare come fu scoperta l’acqua calda. Abbiamo portato gli spazi espressivi degli intellettuali nei mercati all’ingrosso delle arti “trash” dei media. E se qualche narratore è per ventura riuscito ad evitare le sirene del facile successo non ci si preoccupi: costui finirà per certo per trovare nella sua Samarcanda ciò che era riuscito ad evitare. Perché è provato e funziona: si può prendere il tram ma a una condizione: non disturbare il manovratore! Chi non è d’accordo può scendere alla prima fermata.

Sacco Vuoto Sacco Pieno

Mia figlia ed i suoi compagni di classe vanno pazzi per questo “squid game” – seguendo il topic trend del momento – o per meglio dire per questo gioco finito che è stato proposto loro dalla maestra.

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Sacco pieno sacco vuoto si ricollega al tema del divertimento e ad uno più fondante della psicoterapia. Mia figlia ci gioca assieme ai compagni nei pochi minuti precedenti l’ingresso in classe, quando molti compagni sono assieme a lei in attesa dell’arrivo della maestra.

Nella nostra vita invece sacco pieno sacco vuoto sembra trovare poco spazio, nella – a volte – pesantezza delle nostre esistenze. In realtà, come ho avuto modo di apprezzare leggendo un bellissimo libro di un maestro dell’antipsichiatria – Thomas Szasz, psicanalista ungherese – la dimensione finale delle nostre vite può essere solo una.

Quella che lui chiama essere studenti del vivere.

Ed è qui che interviene il mio lavoro di tutti i giorni. Essere un accompagnatore di chi sente il bisogno di condividere le sue esperienze perché quando si diventa “grandi” non ci sono più i tuoi compagni di classe che ti aspettano fuori da scuola per il sacco vuoto sacco pieno.

La terapia che propongo ai miei pazienti è spesso vicina a quella dimensione individuata da Szasz, e che si basa sulla mai doma volontà di chiarire problemi e doveri della vita. Non c’è posto per mascherarli, questi problemi.

siamo tutti studenti alla scuola della vita, in cui nessuno di noi può permettersi scoraggiamento e disperazione“.

Non poteva permetterselo Tomas Istvan Szasz, nato nel 1920 a Budapest e sfuggito alle persecuzioni razziali emigrando in America.

Non possiamo permettercelo noi, perché nonostante tutto abbiamo sempre la possibilità di amare la nostra vita.

Non se lo permettono i nostri bambini perché – e questo è un fenomeno bellissimo a cui sovente non pensiamo – quando perdono al sacco pieno sacco vuoto non c’è scoraggiamento, non c’è disperazione, non si danno per vinti. Fanno una cosa semplicissima. (La scuola di Palo Alto ce lo ha da sempre insegnato: problemi complessi non richiedono soluzioni complesse). Ricominciano un’altra manche.

Ed è proprio così che imparano a passare da un gioco finito – sacco vuoto sacco pieno – ad un gioco infinito – la vita.

…molti non riescono a tollerare il ripetersi delle delusioni. In preda alla disperazione di nient’altro hanno voglia che della sicurezza della stabilità, anche se si può ottenerla solo al prezzo dell’asservimento personale. L’alternativa è raccogliere la sfida dell’incessante bisogno di apprendere e ancora apprendere“.

Grazie Maestro.

Fuga per la vittoria…sul calcio moderno

Lo chiamano “sport” ma la definizione oramai è diventata impropria, il termine corretto è business, commercio. Andando con ordine procediamo ad una disamina generale. Innegabile è il fatto che oramai il calcio è il canale di scarico degli istinti più regressivi delle masse. La malinconia, di fronte a questa scena, è inevitabile. Una domanda guardando a tutto ciò sorge spontanea:” Perché lo stato non interviene se non con provvedimenti tampone che risolvono solo parzialmente e limitatamente?”. Senza scadere nella dietrologia bastano due semplici osservazioni. Le televisioni per il solo calcio italiano, serie A, versano ottocento e passa milioni di euro l’anno alla lega calcio, aggiungiamo gli sponsor e compagnia cantante e ci saremo fatti un’idea ben chiara della prima delle due osservazioni: i soldi! Già, sempre lei la vil pecunia. La quale da vil pecunia è assurta all’ aurea pecunia. Rinunciare a siffatti introiti da parte di chi li percepisce è impossibile.

La seconda osservazione trova la sua risposta in una domanda: se la gente non si sfogasse più negli stadi dove lo farebbe? La risposta la lascio a voi ma è abbastanza ovvia.

Certo non tutto è riconducibile a quanto scritto sopra, ma molto sì! Alzi la mano, se possibile, quel tifoso che non si è trovato, più o meno consapevole, all’interno delle due osservazioni sopra descritte almeno una volta! E’ un po’ come per l’informatica: tutti criticano Microsoft ma poi tutti usano Windows.

Potremmo anche chiederci: cosa possiamo fare noi semplici tifosi? Semplice! Essere come quel giocatore che parte dalla sua trequarti e, coast to coast, arriva da solo davanti alla porta avversaria, dribbla il portiere e segna. Si, siamo chiamati a segnare contro la violenza verbale, fisica, con il goal della civiltà. Se veramente vogliamo rendere merito alla città che la nostra squadra rappresenta guardiamo allora alla sua sontuosità, alla bellezza della sua storia sino a dire:” No, un cittadino non farebbe mai ciò”. Se cominciamo uno per uno a cambiare allora anche il calcio cambierà. Per il più semplice dei motivi: sono cambiati i tifosi!

Pubblicità e farmaci

a cura di Gianluca P.

Li pubblicizzano un po’ in tutte le salse al pari della lonza, del capocollo, del prosciutto. Sono i cosiddetti farmaci da banco. All’ apparenza innocui vengono propagandati come dei veri e propri toccasana per qualunque male.

Partiamo con l’esaminare l’aspetto etico della questione e, per farlo, prendiamo ad esempio una ben precisa categoria di questi farmaci: gli integratori multivitaminici. La loro funzione dovrebbe essere quella di integrare un corretto stile di vita, una vita sana. Ma è tuttavia innegabile che l’arma della fine del mondo, la TV, ne abbia fatto altro. Se ci focalizziamo sui multivitaminici vediamo che neanche tanto sotto sotto queste sostanze finiscono per apparire come rimedi all’invecchiamento. Si, la vecchiaia il meriggio della vita, ecco: chi non vorrebbe l’eterna giovinezza? Et voilà la pubblicità ci dà una risposta anche a questa domanda: prendete l’integratore XXX e vedrete che potrete tornare a giocare con i vostri nipoti come se foste ancora un’arzilla mamma trentenne. Chiaramente nel momento in cui questo accade, se accade, il merito non è dell’integratore bensì del placebo legato all’assunzione dell’integratore. In altre parole si può essere così convinti che assunta la sostanza ciò che la sostanza promette avverrà che avviene. Ed è realmente così, almeno per un qualche tempo. Pur volendo soprassedere su altri aspetti non trascurabili, ad esempio gli effetti collaterali, non si può non vedere che alla base di tutto vi è una non accettazione di sé, del proprio corpo. Il corpo invecchia, l’uomo invecchia. Ma anziché elaborare delle strategie vincenti si preferisce enucleare questo dato, l’anzianità, dal tessuto sociale.

Estremamente semplice poi è la strategia di marketing che sta dietro tutto questo: dato un problema, la difficoltà fisica dei nonni a star dietro ai nipoti ad esempio, si propone una soluzione: l’integratore, l’antiossidante, eccetera. Una risposta falsata ad una necessità vera. Concludiamo questo breve excursus con una riflessione

che non può, non deve essere sottaciuta: chi finisce per acquistare questi medicamenti miracolosi ultima frontiera dell’esorcismo che scaccia la vecchiaia? I soggetti più deboli, i meno informati. Ed è questa la forma più pavida che la pubblicità poteva mettere in campo mascherandola da progresso sociale alla portata di tutti.

Molte cose questo modo di vedere le cose ci può fare ma non consentiamogli di farci quella peggiore di tutte: ottunderci il ragionamento.

Un fiorino!!

Il divertimento è una reazione/relazione umana spesso sottovalutata. La vita è spesso piena di impegni e raramente soppesiamo quanto divertimento ci concediamo e se sia sufficiente oppure sia da ampliare.

Ovviamente non parlo del divertimento commerciale, di quello il mondo è pieno. Recentemente sono stato con le mie bambine ad Eurodisney, e lì non si può dire che manchi. L’industria ed il commercio hanno creato paradisi (?) del divertimento per provare a rendere le persone felici o quantomeno per pagare un corrispettivo in cambio di una dose di sollazzo. Ma va da sé che non possiamo passare tutti i giorni a Gardaland.

Intendo un altro tipo di divertimento.

Spesso in terapia i pazienti sono tutto fuorchè divertiti. Sono divertenti, quello si, – senza offesa, vedi oltre – ma non si divertono nelle loro vite. Vengono perchè hanno un problema, chiedono aiuto e consulenza per risolvere alcuni loro problemi. E raramente ti raccontano come si divertono. Sono divertenti perchè ci regalano dei grandissimi affreschi caratteriali, pieni di colori e di intensità nel loro atto quotidiano di interpretazione caratteriale.

In comunità, i ragazzi delle comunità psichiatriche nelle quali lavoro, quando si divertono cambiano volto, tornano bambini. Loro i cui volti sono spesso piegati anzitempo, aggrinziti dalla malattia, quando si divertono, fanno scorgere una linea di pace dentro i loro occhi. E ti riempiono il cuore.

Ecco, il divertimento è un po’ quello che diceva Paolo Quattrini quando ricordava a noi – suoi allievi – che tutti son capaci a fare gli psicologi, poi i terapeuti, ma pochi in realtà sono quelli che si divertiranno.

E la stessa cosa dice il fisico teorico Cabibbo, come citato dal recente premio nobel prof. Giorgio Parisi – vale la pena godersi mezzora della sua spiegazione della fisica della complessità – il quale diceva ai suoi allievi “ma se questo problema che stiamo studiano non ci diverte nel risolverlo, che lo studiamo a fare?!

Il divertimento va alimentato tutti i giorni, andando verso quello che ci piace fare, tornando ad essere quei bambini che eravamo. Sembra una banalità. Manuel Agnelli direbbe che così dicendo potrei riempire il dizionario dei luoghi comuni. Non credo sia un’affermazione banale. Penso piuttosto sia una prospettiva semplice ad un problema concreto nella sua onnipresenza.

Chiedetevi sempre se quello che fate vi diverte, se la risposta super seria che avete dato nel bel mezzo di una litigata vi ha pesato, o se fosse stato meglio renderla più godibile con un paradosso, se il lavoro che fate vi diverte, se la persona che amate è esilarante o vi rende esilaranti, se l’immagine che date di voi stessi al resto del mondo sia simpatica.

E allora quando uno dei nostri amici e dei nostri figli deve affrontare un esame importante, una prova per lui fondamentale, sarebbe bello rovesciare la prospettiva augurando buon divertimento al posto della classica buona fortuna. Essa viene, forse, dall’alto.

Al contrario, il divertimento è una scelta personale che ti fa meritare, o meno, la tua qualità di vita.

Esplorazioni Terapeutiche

mentre la missione NASA su Marte va avanti, un interessante articolo sull’esperimento MOXIE – Mars Oxygen in situ Resource Utilization Experiment – mi ha ricordato cosa facciamo su scala molto più piccola e molto più vicini a casa della sonda Perseverance.

Il piccolo ma utilissimo apparecchio che viene utilizzato per questo esperimento permette di separare le molecole di ossigeno dal biossido di carbonio che è presente in ingenti quantità nell’atmosfera marziana, per questo invivibile all’uomo, essendo appunto priva di ossigeno allo stato puro come sulla Terra.

La NASA, al pari delle altre agenzie aerospaziali, immaginando in un futuro sempre più vicino la presenza umana sul pianeta rosso, si è posta il problema di come rendere respirabile l’aria. Trasportarla sarebbe troppo oneroso. Hanno quindi optato per la produzione in loco, essendo comunque l’ossigeno presente sotto forma di composto assieme al carbonio.

Tale attività è del tutto trasponibile a quella psicoterapeutica.

Le metafore in Gestalt sono preziose, e mi viene da dire generanti. Generano cioè senso.

Leggendo questo articolo ho ricordato come la psicoterapia gestalt faccia un po’ la stessa cosa. Ogni paziente presenta, inizialmente, un mondo interiore – l’intrapsichico – che a volte sembra arido, inesplorato ed inesplorabile. Alla stessa stregua di Marte.

Per rendere abitabile quel mondo occorre cominciare a separare le istanze e permettere un dialogo tra le parti dell’intrapsichico, perchè dal movimento si genera la vita e si supera lo stallo o comunque la problematicità del monoblocco intrapsichico inesplorato. Separando i vari aspetti della personalità, le varie istanze, i vari bisogni e desideri la persona torna a percepire il suo corpo ed i suoi veri bisogni. Di conseguenza può tornare a progettare e creare.

Questa operazione ovviamente non è a costo zero, proprio come la creazione di ossigeno. La temperatura che l’estrattore raggiunge nel corso del processo è di 800 gradi, ed alla fine viene rilasciata nell’atmosfera una molecola di carbonio. Proprio come in terapia: l’operazione di dialogo delle varie istanze intrapsichiche ha un costo, è dispendiosa, il paziente lotta, suda, piange, a volte si difende, ma alla fine riesce a separare le parti ed avere una migliore visione d’insieme. In termini fisici, produce e brucia calore. E anche lui, come il piccolo Rover, lascia un residuo sulla poltrona del nostro studio, ovvero la vecchia visuale del problema che gli rendeva quel piccolo aspetto esistenziale assai, o in qualche modo, gravoso.

Appare evidente quindi come il materiale per compiere questa operazione fosse già presente a livello intrapsichico, ma inservibile, come il biossido di carbonio citato poco fa.

Per permettersi una vita migliore, proprio come accade all’apparecchio MOXIE di Perseverance, non occorre andare chissà dove. E’ già tutto lì. Si tratta solo di dargli un’altra forma.

Per permettere alla vita di ripartire.

Proprio come un giorno, chissà, su Marte.

Architetture intrapsichiche

il problema delle architetture di pensiero, con i conseguenti derivati comportamentali, è avvicinabile al problema delle nostre periferie urbane. Ognuno di noi sa riconoscere, spontaneamente, il senso del bello che vi è in uno stile architettonico e lo può paragonare ad altri stili. Appare evidente quindi come la nuvola di Fuksas, l’Auditorium di Renzo Piano, la stazione AV Napoli Afragola di Zaha Hadid e molte altre ancora sono opere di una certa complessità e bellezza che suscitano ben altre sensazioni rispetto al grigiore dei palazzoni di periferia.

A livello intrapsichico vige la stessa differenza, con un elemento aggiuntivo che non possiamo evitare di considerare. Ovvero che il sintomo che una persona produce, come output della sua gestione interna, è il massimo che in quel momento egli riesce a fare.

Allora intraprendere un percorso di terapia è un ottimo modo per migliorare la qualità delle proprie architetture intrapsichiche, ed in definitiva migliorare la propria qualità di vita. Aumentare la qualità della nostra impalcatura psichica permette di migliorare le nostre produzioni espressive, ed è proprio questa la chiave di volta che ci permette di attraversare la depressione per approdare all’interesse alla vita.

La nostra esistenza è come un grande wok, che si riempie di ingredienti man mano che aumentano le nostre esperienze. Sta a noi inserire il giusto condimento se gli ingredienti sono troppo salati, troppo insipidi, troppo dolci. Per questo motivo la terapia è utile a tutti ed è una prassi salutare che va praticata come qualsiasi altra attività benefica.

Per regalarci architetture migliori.